Quel birichino di Costantino
di Andrea Tornielli
Ci siamo dunque lasciati alle spalle le elucubrazioni sul matrimonio di Gesù e della Maddalena, delle quali Dan Brown è soltanto l’ultimo propagatore. Possiamo ora affrontare un altro dei capisaldi della costruzione teorica sottesa al suo Codice da Vinci, vale a dire il «complotto» ordito dall’imperatore Costantino e dalla Chiesa nel corso del Concilio di Nicea, per «eliminare» i testi evangelici scomodi, salvando solo quelli più innocui, e al tempo stesso «divinizzare» l’umana figura di Gesù di Nazaret. Il quale, secondo Brown e i suoi molti ispiratori, non era certo il figlio di Dio, ma un grande profeta. Ricordiamo, a mo’ di promemoria, alcune delle affermazioni contenute in proposito nel Codice da Vinci.
Innanzitutto la Bibbia e i suoi scritti canonici, così come essi sono stati tramandati a noi, sarebbero stati raccolti da Costantino il Grande, il quale nell’anno 325 avrebbe anche deciso di unificare l’impero sotto un’unica religione, il cristianesimo. Mentre fino a quel momento, a detta di Dan Brown, Gesù era stato considerato dai suoi seguaci «come un profeta mortale», da quel momento, con un voto a maggioranza, Costantino lo impone come «divino». Anche in questo caso, il nostro romanziere non inventa nulla: un’affermazione simile la ritroviamo nel libro di Baigent, Leigh e Lincoln, The Holy Blood and The Holy Grail: «Il Concilio di Nicea decise, con una votazione, che Gesù era un dio e non un profeta mortale… (Costantino), un anno dopo il Concilio di Nicea, sanzionò la confisca e la distruzione di tutte le opere che contestavano gli insegnamenti ortodossi: le opere dei pagani che parlavano di Gesù e quelle dei cristiani “eretici”… Fu a questo punto che vennero apportate probabilmente quasi tutte le alterazioni decisive al Nuovo Testamento e Gesù assunse la posizione eccezionale che ha avuto da allora… Delle cinquemila versioni manoscritte più antiche del Nuovo Testamento, nessuna è anteriore al IV secolo. Il Nuovo Testamento nella sua forma attuale è sostanzialmente il prodotto dei revisori e degli scrittori del IV secolo: custodi dell’ortodossia, “seguaci del messaggio” con precisi interessi da difendere».
Cominciamo col porci alcune domande. Innanzitutto, chi era Costantino? La descrizione che ne fa Dan Brown nel Codice da Vinci è veritiera e corrispondente alla storia (alla storia, non alla fede cristiana)? Il lettore che ci ha seguito fin qui probabilmente già immagina la risposta. Ma procediamo per gradi.
Costantino I detto il Grande (Caio Flavio Valerio Aurelio) imperatore romano dal 306 al 337 nasce da Costanzo I Cloro, quando questi era ancora un semplice ufficiale, e da Flavia Elena. Dopo la nomina a «cesare» del padre, Costantino viene cresciuto nella città di Nicomedia presso Diocleziano, per essere in futuro associato all’impero e anche come «garanzia» della fedeltà dello stesso Costanzo. Accompagna Diocleziano in Egitto nel 296 e al servizio di Galerio come tribuno militare combatte contro i persiani e i sarmati. Richiamato dal padre Costanzo, dopo che quest’ultimo era stato proclamato «augusto» in seguito all’abdicazione di Diocleziano e di Massimiano, lo segue in una campagna in Britannia e alla sua morte, per acclamazione dei soldati, ne assume il posto e il titolo. Siamo all’anno 306. Dopo aver vinto i franchi, Costantino si accorda con Massimiano, che aveva intanto assunto nuovamente il potere. Sposa la figlia di Massimiano, Fausta, e ottiene il riconoscimento di «augusto», che però gli viene contestato da Diocleziano. Crescono pure i contrasti con il suocero, che Costantino fa prigioniero a Marsiglia costringendolo al suicidio nel 310. Si allea allora con l’«augusto» Licinio, al quale dà in moglie la sorellastra Costanza, e con Massimino Daia, lasciando entrambi a governare l’Oriente, si dedica a fare guerra a Massenzio, il figlio di Massimiano, che mirava al governo dell’Occidente. Costantino ha la meglio sull’esercito di Massenzio e dopo aver marciato su Roma lo sconfigge a Ponte Milvio, il 23 ottobre 312. A questo punto, Costantino si fa riconoscere dal Senato romano il titolo di «maximus augustus» e, all’inizio dell’anno 313, s’incontra con Licinio a Milano, emanando assieme a lui il famoso editto con il quale viene proclamata la libertà di culto per i cristiani e si decretava la restituzione dei beni che erano stati loro confiscati.
«Noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, felicemente uniti a Milano», si legge nell’editto, «e trattando di ciò che riguarda la sicurezza e l’utilità pubblica, abbiamo creduto che uno dei primi nostri doveri fosse di regolare ciò che interessa il culto della divinità e di dare ai cristiani, come a tutti gli altri nostri sudditi, la libertà di seguire la religione che ognuno desidera (“liberam potestatem sequendi religionem, quam quisquam voluisset), onde richiamare il favore del Cielo sopra di noi e sopra tutto l’Impero».
L’accordo tra Costantino e Licinio, dopo l’eliminazione di Massimino Daia (avvenuta nell’estate del 313) è precario: il definitivo conflitto tra i due «augusti» avviene ad Adrianopoli e a Crisopoli nel 323. Abolito il sistema della tetrarchia instaurato da Diocleziano (che prevedeva due «augusti» e due «cesari» che sarebbero loro subentrati), Costantino rimane unico e incontrastato imperatore. Durante il suo regno deve affrontare il pericolo incombente dei barbari: nel 332 stabilisce una pace con i goti (che saranno evangelizzati dopo pochi anni secondo il credo ariano). Si dimostra spietato nei confronti dei familiari, facendo uccidere il figlio maggiore Crispo e poi la moglie Fausta.
Alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, Costantino aveva diffuso la notizia di avere avuto la visione di una divinità, che l’aveva ispirato promettendogli la vittoria; aveva quindi assunto come insegna un simbolo, il labaro, che fu poi interpretato come il «chrismon» cristiano (le lettere «chi» e «ro», iniziali del nome di Cristo), o come l’emblema della croce. Fatti e simboli, questi, ai quali sarà dato un preciso significato cristiano solo più tardi, quando la nuova religione si sarà pienamente affermata.
Si può legittimamente pensare che Costantino si sia avvicinato per gradi al cristianesimo, a partire da un culto monoteistico del «dio sole» che egli professava. Con l’editto di Milano, l’imperatore, per assicurare la pace nel suo regno, concede a tutti di adorare Dio nel modo che preferiscono. Presiede il Concilio di Nicea, in qualità di «vescovo di coloro che sono fuori dalla Chiesa», e attribuisce a se stesso una funzione di regolatore della vita religiosa, anche se mantiene la carica tradizionale degli imperatori, vale a dire quella di «pontifex maximus», sommo sacerdote del culto pagano. Nel 321 concede ai cristiani il riconoscimento della domenica come giorno di riposo, seppure battezzata con il nome di «giorno del sole»: in questo modo accontenta anche i pagani, soprattutto i numerosi adepti del culto di Mitra, per i quali la domenica è proprio il «giorno del sole».
Si converte, con tutta probabilità, soltanto alla fine della vita. Il vescovo ariano Eusebio di Nicomedia, molto influente a corte, lo battezza sul letto di morte. Al di là delle diatribe sulla data della sua conversione, è indubitabile che proprio grazie a Costantino e alle sue leggi (libertà di culto, restituzione dei beni confiscati, dispensa per il clero dalle prestazioni obbligatorie, diritto della Chiesa di ricevere donazioni, abolizione delle leggi contro il celibato, costruzione di basiliche) che il cristianesimo si diffonderà nell’impero.
Con l’imperatore Costantino l’impero romano assume in modo definitivo la forma di una monarchia di diritto divino, con aspetti orientaleggianti. La figura del sovrano è al centro di tutto, governa tutto e tutto ciò che lo riguarda diventa sacro: in sua presenza bisogna rispettare un «religioso silenzio». È lui a fondare una nuova capitale, Costantinopoli, sul luogo dell’antica Bisanzio. E sarà attribuito a lui un documento apocrifo, la cosiddetta «Donazione di Costantino» che sarebbe stata rivolta a Silvestro, vescovo di Roma, nell’anno 313, attraverso la quale l’imperatore concedeva al Papa il potere temporale.
È vero pertanto, come afferma il Codice da Vinci, che Costantino avrebbe reso il cristianesimo la religione ufficiale dell’impero romano? Assolutamente no. Questo infatti avverrà una quarantina d’anni dopo Costantino, sotto l’imperatore Teodosio, che regna tra il 379 e il 395. Sarà lui a promulgare una legge che vieta ogni culto sacrificale pagano ma anche ogni semplice visita al tempio. Persino adorare gli idoli pagani in casa propria viene proibito.
Veniamo ora alla spinosa questione del Concilio di Nicea, che secondo Dan Brown avrebbe stabilito il canone delle scritture cristiane, abolendo quelle apocrife perché pericolose. E avrebbe anche stabilito grazie a una votazione la divinità di Cristo. Tanto per cominciare dobbiamo ricordare che il Concilio di Nicea non si è occupato del canone delle scritture sacre, ma ha affrontato problemi legati alla disciplina ecclesiastica in un momento di grandi dispute dottrinali. Anche se è vero che il canone, già formatosi in precedenza, si va rafforzando nell’età costantiniana con la conseguente perdita d’influenza dei testi considerati apocrifi.
La grande questione a tema nel Concilio è relativa al Dio unico e allo stesso tempo trino, al Dio unico in tre persone distinte, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. La convocazione delle assisi conciliari è provocata dalla dottrina ariana, propagata da Ario: per questo sacerdote di origine libica, che apparteneva al patriarcato di Alessandria, le persone divine della trinità non possono essere considerate uguali, dato che soltanto il Padre, in quanto non creato ma anche non generato sarebbe il «vero» Dio, mentre il Figlio, generato dal Padre, occuperebbe un posto intermedio tra Dio stesso e la creazione. Quello di Ario è di fatto un monoteismo assoluto. Le idee di Ario trovano molti seguaci e per dirimere la questione Costantino convoca un Concilio (il primo «ecumenico» in quanto coinvolge la Chiesa universale) presso il palazzo imperiale di Nicea. I vescovi partecipanti sono circa trecento (secondo alcune fonti 318, secondo altre meno di 250) e l’esito del Concilio è la formulazione del «simbolo niceno», vale a dire del «Credo» che precisa la fede della Chiesa e afferma che Gesù è «consustanziale al Padre» («homousios to Patrì») e ha la sua stessa natura. Abbiamo letto nel Codice da Vinci che la proclamazione della divinità di Cristo sarebbe avvenuta con un voto a maggioranza. Peccato che Dan Brown non dica che soltanto due vescovi non sottoscrissero il Credo: Teona di Marmarica e Secondo di Tolemaide. Entrambi vennero deposti e scomunicati dal Concilio, quindi esiliati da Costantino.
Ecco la formulazione del Credo niceno, che sarà poi ulteriormente sancita dal Concilio di Costantinopoli:
«Crediamo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.
E in un solo Signore Gesù Cristo, l’unigenito Figlio di Dio, generato dal Padre prima del tempo, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre, attraverso il quale tutte le cose sono state create; che per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e fu fatto carne dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria, e divenne uomo, fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, e patì e fu sepolto, e risorse il terzo giorno secondo le Scritture, e ascese al cielo, e siede alla destra del Padre, e tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il cui regno non avrà fine.
E nello Spirito Santo, il Signore che dà la vita, che procede dal Padre, e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e parlò attraverso i profeti.
E in una sola Chiesa, santa, cattolica e apostolica.
Riconosciamo un solo battesimo per la remissione dei peccati. Attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».
Costantino non si limita a convocare il Concilio del Credo, ma manda l’«eretico» Ario in esilio. Ma non basta. L’arianesimo continua a diffondersi tra le comunità cristiane. Il grande oppositore di Ario è il vescovo Atanasio di Alessandria e l’imperatore tenta, invano, di proporre una soluzione di compromesso accettabile da entrambi. I vescovi che hanno sancito il Credo, però, si rifiutano di modificarlo e così Costantino, stanco di queste diatribe, riabilita l’esiliato Ario e manda in esilio lo stesso Atanasio. Quando viene battezzato sul letto di morte, l’imperatore riceve il battesimo nella fede ariana. La crisi si risolverà soltanto nel 381, con il Concilio di Costantinopoli, convocato dall’imperatore Teodosio, che spiegherà la «coesistenza» dell’unicità di Dio e la distinzione delle tre persone della Trinità in una sola natura. Il Credo costantinopolitano riprende quello di Nicea, afferma che lo Spirito Santo è «consustanziale» e «coeterno» con il Padre e il Figlio con cui forma la Santissima Trinità e riconosce al vescovo di Costantinopoli il posto d’onore dopo quello di Roma.
Dobbiamo ora chiederci: alla luce di questo, che fine fa l’affermazione di Dan Brown secondo la quale sarebbe stato il Concilio di Nicea, sotto la guida di Costantino, a divinizzare l’uomo Gesù? Chiunque abbia un minimo di conoscenza dei testi evangelici comprende al volo che ci troviamo davanti all’ennesima fiaba del nostro romanziere. Prendiamo per esempio gli scritti di Paolo, che sono databili tra il 50 e il 68 dopo Cristo, vale a dire almeno trecento anni prima del Concilio di Nicea. Ebbene, in questi scritti troviamo affermata senza tema di smentita la divinità di Cristo. Come nella Prima Lettera ai Corinzi (8, 5-6), che recita: «E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi e molti signori, per noi c’è un Dio solo, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose, e noi esistiamo per lui». Difficile davvero immaginare un uomo, per quanto grande profeta, «in virtù del quale esistono tutte le cose»! Lo stesso titolo «Signore» veniva spesso riferito a Dio, nella traduzione greca della Bibbia, detta «dei Settanta». Gesù, secondo l’apostolo Paolo, è coinvolto nella creazione del mondo. «Secoli prima di Nicea», scrive Darrell L. Bock, «un importante capo spirituale cristiano affermava la divinità di Gesù non solo mediante l’uso di un titolo, ma anche attraverso la descrizione del suo agire».
In altri brani, come nella Lettera ai Filippesi (2, 9-11), Paolo applica a Gesù i termini che il profeta Isaia utilizzava per Dio nella Bibbia ebraica: «Per questo anche Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Cristo Gesù è il Signore, a gloria di Dio Padre». Un passo che richiama quello di Isaia (45,23) nel quale il profeta riporta le parole di Dio: «L’ho giurato su me stesso; quello che esce dalla mia bocca è giustizia e non sarà revocato! Infatti davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua giurerà…».
Lasciamo Paolo, e prendiamo i vangeli. Come leggere il prologo di Giovanni, se non come un inno alla divinità di Cristo?
«In principio era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Questi era in principio presso Dio.
Tutto per mezzo di lui fu fatto
e senza di lui non fu fatto
nulla di ciò che è stato fatto…
E il Verbo si fece carne…».
Il Verbo divino che si fa carne è Gesù Cristo, il Nazareno, figlio di Maria, concepito per opera dello Spirito Santo, figlio del Padre, condivide con quest’ultimo la natura divina. Non è soltanto un uomo, un profeta, un predicatore.
Veniamo ora ai tre sinottici. E citiamo, a mo’ d’esempio, le parole pronunciate da Gesù davanti al Sinedrio, riunito nell’abitazione dei sommi sacerdoti Anna e Caifa.
«Allora il sommo sacerdote levatosi in mezzo all’assemblea interrogò Gesù dicendo: “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?”. Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?”» (Marco 14, 60-61).
«Allora il sommo sacerdote gli disse: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”» (Matteo 26, 63).
«E gli dissero: “Se tu sei il Cristo, diccelo”» (Luca 22, 67).
È il momento culminante del processo giudaico, perché da questa risposta dipende la condanna di Gesù. La risposta, riportata dai vangeli, è questa e appare inequivocabile:
«Gesù rispose: “Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma da questo momento starà il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio”» (Luca 22, 68-69).
«Gesù rispose: “Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo assiso alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo”» (Marco 14, 62).
La domanda di Caifa, osserva il biblista Gianfranco Ravasi, voleva «provocare Gesù a una semplice dichiarazione messianica, grave ma non blasfema, perché il Messia in Israele era considerato una creatura umana». E Giacomo Biffi, nel suo Gesù di Nazaret (edizioni Elledici) spiega: «Il “messia” per gli ebrei del tempo di Cristo era la figura che radunava in sé tutte le speranze di Israele: era colui che avrebbe ristabilito il regno di Davide, che avrebbe rinnovato e purificato il culto di Dio, che avrebbe fatto conoscere senza ambiguità la volontà di Iahvè e il suo disegno di salvezza, che avrebbe posto fine alla loro storia di dolore e di umiliazione». È interessante notare che il concetto di messia non era necessariamente connotato dalla prerogativa della unicità. Gli ebrei riconoscevano infatti molti messia nel loro passato. Davide, i re, i sacerdoti, i profeti, avevano di volta in volta ricevuto questo appellativo, che ricordava la consacrazione mediante l’unzione.
La colpa di «arrogata messianicità», cioè l’autoproclamarsi messia, prevedeva un duro castigo, ma non la condanna a morte. Nella sua risposta, invece, Gesù va ben oltre, fondendo insieme due testi biblici: il Salmo 110, che parla di un messia riconducibile all’orizzonte terreno e atteso da Israele lungo la linea dinastica di Davide, e un passo tratto dal capitolo 7 di Daniele. Quest’ultima citazione aveva un valore più misterioso per le autorità religiose giudaiche, in quanto presentava un «Figlio dell’uomo» messianico che «veniva sulle nubi del cielo», partecipando dunque della stessa vita di Dio. Presentando se stesso con delle caratteristiche divine, Cristo fa scattare l’accusa di bestemmia.
Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte (Marco 14, 63-64).
Compiendo il gesto rituale dello strapparsi le vesti, Caifa manifesta il suo sdegno più profondo per l’affermazione del Nazareno. «In conclusione», osserva Giuseppe Ricciotti nella sua Vita di Gesù Cristo (Mondadori, 1999), «l’inquirente aveva trionfato in ambedue i campi: in quello nazionale-politico, perché l’imputato aveva confessato di essere il Messia d’Israele; in quello rigorosamente religioso, perché aveva confessato di essere il vero Figlio d’Iddio. Questa seconda confessione era stata decisiva davanti al tribunale del Sinedrio; la prima verrà adottata e sarà ugualmente decisiva davanti al tribunale del procuratore romano».
Vorremmo ora proporre una pagina significativa del cardinale Giacomo Biffi, tratta dal già citato libro Gesù di Nazaret (pp. 101-104) e dedicata alla divinità di Cristo, che elenca una nutrita serie di citazioni evangeliche dalle quali questa traspare chiaramente.
«Pietro proclama: “Tu sei il Figlio di Dio”. Abbiamo qui il terzo, più alto e più sconcertante elemento della unicità di Gesù di Nazaret, cioè la sua divina personalizzazione o, più semplicemente, la sua divinità. Era storicamente impensabile che la divinizzazione di un uomo potesse nascere “per cause naturali” entro la cultura ebraica, totalmente, rigidamente, ferocemente monoteista. Eppure la Chiesa apostolica è arrivata a questa sconvolgente persuasione costretta dalla luce della risurrezione: “Tu sei il mio Signore e il mio Dio” (Giovanni 20,28), è la professione di fede dell’incredulo Tommaso, posta a traguardo della catechesi giovannea».
«La Chiesa apostolica», continua Biffi, «esprime in modo vario questa difficile fede, ma sempre con molta chiarezza e in tutte le sue diverse componenti:
– Paolo: Gesù è “di natura divina” (Filippesi 2,6) e ha ricevuto “il Nome che sta sopra tutti gli altri nomi” (Filippesi 2,9);
– Giovanni: Gesù è il Verbo che “era presso Dio” ed “era Dio” (Giovanni 1,1);
– Matteo: colloca il Figlio tra Dio Padre e lo Spirito di Dio, sullo stesso piano: “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Matteo 28,19);
– La Lettera agli Ebrei: “del Figlio afferma: Il tuo trono, o Dio, sta in eterno” (Ebrei 1,8).
Alla luce della Pasqua la Chiesa apostolica è arrivata a questa convinzione, perché alla luce della Pasqua ha finalmente capito che Gesù stesso nei discorsi e negli atti della sua vita terrena aveva in maniera molteplice, anche se cauta, rivendicato a sé le prerogative divine:
– si pone sullo stesso piano del Legislatore del Sinai: “Io invece vi dico” (Matteo 5-7);
– si arroga il diritto di perdonare i peccati (Matteo 9,2; Luca 7,36-50);
– si ritiene il Giudice degli uomini e della storia:
– proclama di essere il “padrone del sabato” e più grande del tempio (Matteo 12, 6-8);
– dice di essere l’unico maestro, che non solo ha sempre ragione, ma “è la verità”;
– si colloca più in alto degli angeli (Marco 13,41);
– si propone come oggetto di un amore che deve essere più grande di quello del padre, della madre, della sposa, dei figli, dei fratelli (Matteo 10,37; Luca 14,26);
– si ritiene non uno dei figli di Dio, ma l’unico Figlio di Dio (Matteo 21,33-34);
– a suo dire Dio e lui sono esattamente sullo stesso piano: “Nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio…” (Matteo 11,27; Luca 10,22).
La certezza storica – enunciata da tutti questi indiscutibili “loghia” (detti) – che Gesù stesso si è presentato come Dio, rende assolutamente improbabile la benevola, accomodante, “moderata” concezione che di Cristo hanno molti “benpensanti”, che vogliono poter apprezzare e lodare Gesù, come uomo saggio, giusto e grande, senza riconoscerlo come Signore e come Dio. Una tale “moderazione” è smentita da tutta la documentazione evangelica in nostro possesso: un uomo che dice le cose che lui dice, non può essere giudicato né saggio, né giusto, né grande, non può avere la nostra stima, non può essere onorato. A meno che non sia vero tutto quello che lui dice di sé e tutto quello che la Chiesa apostolica afferma di lui. Non si può dunque arrivare a un accordo generale sulla base di una generica stima di Cristo: o lo si rifiuta, disprezzandolo, o davanti a lui ci si inginocchia».
Come si vede, dunque, la divinità di Cristo è rintracciabile nei testi più antichi, scritti pochi decenni dopo i fatti. Attribuire al voto del Concilio di Nicea questa credenza, facendo intendere, come Dan Brown, che fino a quel momento Gesù era stato considerato soltanto un semplice uomo, significa affermare il falso. Libero Dan Brown, come chiunque altro, di non credere alla divinità di Cristo. Ma scrivere che questa era la credenza diffusa nei primi secoli del cristianesimo è semplicemente una bufala. L’ennesima, tra quelle raccontate nel Codice da Vinci. L’idea della divinità di Gesù, il figlio di Dio, non è stata decisa a maggioranza in una votazione – seppure una votazione conciliare – ma era espressa con evidenza e chiarezza nei vangeli che, lo ricordiamo, sono stati scritti pochi decenni dopo i fatti narrati.
Veniamo ora al canone delle Scritture, un tema al quale abbiamo già accennato nel capitolo precedente ma che ora esamineremo più nel dettaglio, per verificare se rispondano al vero le affermazioni di Dan Brown. Secondo il Codice da Vinci (e i suoi «ispiratori»), lo abbiamo visto, l’imperatore Costantino avrebbe commissionato e finanziato una nuova Bibbia, escludendo i vangeli che esaltavano gli «aspetti umani» di Cristo. Ricordiamo le parole precise già citate nel primo capitolo di questo libro, con le quali, nel romanzo, si parla del ruolo avuto dall’imperatore nella formazione del canone delle Scritture: «Costantino aveva innalzato la condizione di Gesù, erano passati quasi quattro secoli dalla morte di Gesù stesso, esistevano migliaia di documenti che parlavano della sua vita di uomo mortale. Per riscrivere i libri di storia, Costantino sapeva di dover fare un colpo di mano… commissionò e finanziò una nuova Bibbia, che escludeva i vangeli in cui si parlava dei tratti umani di Cristo e infiorava i vangeli che ne esaltavano gli aspetti divini. I vecchi vangeli vennero messi al bando, sequestrati e bruciati».
Anche in questo caso, il Codice da Vinci non la racconta giusta. Nel 397 il vescovo Atanasio fu il primo a proporre una lista dei ventisette libri del Nuovo Testamento e fu anche il primo a usare il termine «canone» per la sua raccolta. Tale lista, dunque, era stata stilata dopo il Concilio di Nicea, che come abbiamo visto si era svolto sotto l’egida di Costantino nel 325. Va però anche aggiunto che in realtà la selezione dei testi cosiddetti canonici si era già sostanzialmente conclusa parecchio tempo prima. Si tratta di un processo graduale, che avviene nel II, III e IV secolo. Tra l’altro, scrivere, come fa Dan Brown, che i manoscritti più antichi del Nuovo Testamento risalgono tutti al IV secolo non è corretto, dato che esistono alcune decine di papiri (e si tratta anche di frammenti di lunghezza considerevole) databili nel II e nel III secolo. Ecco, in sintesi, le tappe principali dell’istituzione del canone delle Scritture cristiane, così com’è stato efficacemente riassunto da Marie-France Etchegoin e Frédéric Lenoir, nel loro libro Inchiesta sul Codice da Vinci (Mondadori, 2005): Giustino martire, che scrive attorno all’anno 150, riferisce che a Roma «si leggevano le Memorie degli apostoli». Si sa che nel II secolo circolavano infatti vari testi, nei quali erano raccontati i fatti della vita di Gesù e le sue parole, insieme con altri scritti apocalittici attribuiti agli stessi apostoli. All’epoca, bisogna precisarlo, nessuna autorità o istituzione ecclesiastica aveva ancora stabilito l’autenticità o meno dei testi in circolazione. Il primo personaggio che redige una selezione rigida è Marcione (85 circa – 160), figlio del vescovo di Sinope, accolto dalla comunità di Roma, il quale rifiuta l’eredità ebraica del cristianesimo e l’Antico Testamento concentrandosi invece sul vangelo di Luca – in una versione da lui adattata – e su alcune lettere di Paolo. Oltre a sostenere l’irriducibilità di giudaismo e cristianesimo, riterrà come soltanto apparente l’incarnazione di Cristo (docetismo). Sarà considerato eretico e scomunicato, e fonderà una chiesa sopravvissuta fino al V secolo. La sua iniziativa contribuirà a incoraggiare una forma di selezione dei sacri testi.
Un altro documento importante, che serve a smentire la tesi di Dan Brown, è il Frammento muratoriano, che prende il nome da Ludovico Antonio Muratori, storico, bibliotecario ed erudito che nel 1740 ha scoperto questo importante documento risalente all’VIII secolo, nel quale si fa riferimento a «Pio, vescovo di Roma morto nel 157» e si afferma l’esistenza, in quell’epoca, dei quattro vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni, degli Atti degli Apostoli attribuiti a Luca e delle tredici lettere di Paolo. Il Pio vescovo di Roma è Pio I.
Nel frammento, che consta di ottantacinque righe, sono pure indicati alcuni criteri di selezione per i testi canonici: la loro antichità, vale a dire che essi devono essere il più possibile vicini dal punto di vista temporale ai fatti raccontati, e il loro legame diretto con la predicazione degli apostoli. Criteri che, come il lettore avrà già compreso, di fatto sbaragliano molta produzione apocrifo-gnostica in favore dei quattro vangeli canonici, scelti dunque ben prima di Costantino, circa duecento anni prima del Concilio di Nicea, e non sulla base della loro «pericolosità» circa i contenuti. Non si trattava cioè di scartare o nascondere inesistenti vangeli che ci parlavano delle nozze di Gesù con la Maddalena o dell’umanità di Cristo, semplice profeta e non Dio, favorendo invece gli scritti più innocui e utili alla dottrina dominante. No. I criteri sono precisi, hanno una loro logica, e si richiamano all’antichità del testo e alla sua comprovata origine apostolica, come garanzia di fedeltà ai fatti narrati.
Qualche decennio dopo il pontificato di «Pio, vescovo di Roma morto nel 154», verso la fine del II secolo, il vescovo di Lione Ireneo prepara una lista contenente i quattro vangeli canonici che secondo lui rappresentano la «buona novella». Ireneo si scaglia pure contro le eresie e in particolare contro la gnosi che attacca la vera fede cristiana. Ricordiamo ancora una volta che mancano circa centocinquant’anni al Concilio di Nicea, convocato dall’imperatore Costantino. Ancora, nella Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, scritta verso l’anno 325, sono indicati i libri letti nelle Chiese d’Oriente alla fine del II secolo. Vale a dire, i quattro vangeli canonici, gli Atti degli apostoli, le lettere di Paolo e la lettera agli ebrei, le prime lettere di Pietro e Giovanni e alcune altre opere che non saranno poi incluse nel canone definitivo, come l’Apocalisse di Pietro, che pur non essendo contrarie alla dottrina cristiana non sono considerate «ispirate» da Dio. È bene precisare che tra gli apocrifi non ispirati che vengono utilizzati non ci sono vangeli gnostici, ma testi comunque in linea con la dottrina cristiana così come si era andata definendo nei primi secoli. Dunque ne dobbiamo dedurre che già allora una decisiva selezione era stata fatta e non includeva i testi così cari a Dan Brown, anche perché, forse, questi non erano ancora stati redatti.
Dunque sia a Roma, nel 154, sia nelle Chiese d’Oriente, più o meno negli stessi anni, il canone delle Scritture del Nuovo Testamento in vigore era sostanzialmente quello degli scritti che saranno considerati canonici nei secoli successivi fino ai nostri giorni. Come avrebbe fatto Costantino, che all’epoca non era ancora nato, a compiere la sua azione selezionatrice? Ha potuto forse viaggiare con una macchina del tempo, superando la barriera di quasi due secoli? Chiediamoci piuttosto perché queste elementari informazioni – per reperire le quali non è necessario tuffarsi per anni nel dedalo degli studi neotestamentari, dato che sono reperibili in una buona enciclopedia – non fossero a conoscenza dell’autore del Codice da Vinci.
Nel corso del IV secolo (arriviamo così finalmente a Costantino!) si pone una volta per tutte il problema di selezionare definitivamente i testi canonici da quelli che non lo sono. Un lavoro che vede all’opera i cosiddetti concili regionali. Ai già citati criteri dell’antichità, dell’apostolicità e dell’autenticità della fede proclamata, se ne aggiunge un altro, molto significativo, vale a dire quello della diffusione universale: per la catechesi e la liturgia saranno cioè adottati quei testi già maggiormente diffusi dalle comunità cristiane in Occidente e in Oriente. Nel 328 il Concilio di Roma stila l’elenco definitivo, con i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, il Concilio di Ippona nel 393 conferma quella scelta e infine nel 397 il Concilio di Cartagine vi aggiunge l’Apocalisse di Giovanni apostolo stabilendo che al di fuori di queste «Scritture canoniche nulla deve essere letto nella Chiesa sotto il nome di divine Scritture».
Non ci sono, come si vede, colpi di mano. Non ci sono roghi che bruciano antichi testi «pericolosi» per salvare solo quelli «innocui». Il processo è lungo e articolato, dura circa tre secoli, si conclude in modo abbastanza prevedibile visti i criteri che si erano andati affermando. L’idea di Dan Brown finisce male. «C’è un unico elemento storicamente vero nella tesi del Codice da Vinci», scrivono Marie-France Etchegoin e Frédéric Lenoir, «una volta costituita la Bibbia cristiana, le tesi gnostiche vengono sistematicamente condannate…». Il problema degli scritti canonici si porrà nuovamente con la riforma protestante. Ma neanche questa riuscirà a far portare in vigore gli apocrifi gnostici, che continuano a essere considerati inattendibili.
Qualche breve considerazione, alla fine di questo capitolo dedicato a Costantino e alla formazione del canone dei vangeli, lo merita il tema del «femminino sacro»¸ del culto della dea madre che sembra ossessionare Dan Brown e i protagonisti del suo romanzo, che vedono sacri Graal, simboli sessuali e vagine stilizzate in ogni dove, persino nei cartoni animati di Walt Disney. È accertato, dagli studiosi della preistoria, che per un lungo periodo, tra il paleolitico e il megalitico, le popolazioni del nostro Continente e del Medio Oriente veneravano una sorta di grande dea madre, una divinità femminile. Nelle società primitive, il potere di dare la vita era infatti considerato come qualcosa di divino e di misterioso e la stessa organizzazione della vita di questi nostri progenitori era di tipo matriarcale. «In Europa occidentale», scrivono ancora Marie-France Etchegoin e Frédéric Lenoir, «la venerazione delle dee è terminata probabilmente qualche migliaio di anni prima di Cristo, quando gli Indoeuropei invasero l’Europa da est portando con loro la credenza in divinità maschili. Il culto delle dee si è unito progressivamente al culto di questi dèi dando vita a una grande varietà di religioni pagane».
È ovviamente del tutto priva di fondamento la tesi di Brown, secondo la quale sarebbe stato Costantino a sostituire l’iniziale «femminino sacro» o «principio femminile» vigente nel cristianesimo delle origini con il principio maschile o maschilista. La società patriarcale, che aveva sostituito quella matriarcale, era diventata vincente già da moltissimi secoli. Dunque non ci sono cambi in corsa, o sotterfugi, né tantomeno segreti conservati gelosamente da pochi iniziati: l’idea che inizialmente il cristianesimo si fondasse sul principio femminile e che l’uomo Gesù avesse stabilito di lasciare alla moglie la guida della Chiesa, è una pura e semplice invenzione, antistorica, priva di qualsiasi riscontro. L’ennesima, nelle pagine del romanzo di Dan Brown.
http://apologetica.altervista.org/processo_codice_da_vinci_costantino.htm
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